Oblio e memoria

Sabato 6 giugno 2020 alle ore 11.00 si è svolto presso Piazza Umberto a Bari il corteo antirazzista in memoria di George Perry Floyd, il cittadino afroamericano di Minneapolis, Minnesota, morto per soffocamento il 25 maggio 2020 nel corso di un arresto eseguito a suo carico da quattro agenti di polizia.

Quello di Floyd non è, purtroppo, il primo caso negli Stati Uniti di abuso di potere strettamente connesso ad atti di razzismo da parte delle forze dell’ordine, formate all’interno di un sistema giudiziario malato, prepotente e discriminatorio, contro cui prende vita il movimento “Black Lives Matter”.

Esattamente un anno prima della morte di Floyd è stata pubblicata su Netflix la miniserie “When They See Us” diretta da Ava DuVernay, basata sugli eventi del Central Park jogger case del 1989.

Nei quattro episodi si ricostruisce la vicenda dei Central Park Five, arrestati e accusati di aver aggredito, stuprato e lasciato in fin di vita una operatrice finanziaria 28enne di Wall Street mentre faceva jogging a Central Park la sera del 19 aprile 1989. Solo nel 2002 un giovane ispanico, Matias Reyes, stupratore seriale che nella stessa estate dell’ ’89 commise altre violenze, confessando anche lo stupro della donna di Central Park, con prove che affermarono la sua colpevolezza, rese liberi da ogni accusa i cinque ragazzi, oramai divenuti uomini.

L’obiettivo –afferma la regista Ava DuVernay durante un’intervista da Oprah Winfrey– è quello di far capire che questo è un sistema che vive della nostra ignoranza e noi non possiamo più essere ignoranti. Non puoi cambiare ciò che non conosci. E ora che sai, cosa fai? Cosa cambierai?”. E poi continua affermando “She’s – riferito a Linda Fairstein, procuratore distrettuale di Manhattan che guidò l’Unità per i Crimini Sessuali del caso in questione- is a part of a system that’s not broken. It was built to be this way. It was built to oppress. It was built to control. It was built for profit, it was built for political gain and power, and it is incumbent upon us.

Nonostante i trent’anni che separano il caso di Central Park e la morte di George Floyd, le cose non sembrano essere cambiate di molto, basti pensare al senso di sicurezza che mostrava Derek Chauvin, immortalato con gli occhi iniettati d’odio e dell’ebbrezza di esercitare il proprio potere su un altro essere umano, o al Presidente degli Stati Uniti che, in un momento in cui i suoi cittadini scendono per le strade perché non si sentono liberi né sicuri nella Patria delle Libertà e della Salvezza, va avanti costruendo recinti e muri per proteggere la sua paura del diverso da sé. Proprio lui, lo stesso Donald Trump che a seguito dell’episodio della jogger nel 1989, acquistò per un ammontare di 85.000 dollari la copertina delle principali testate giornalistiche newyorkesi al fine di promuovere una campagna a favore della pena di morte imputata ai Central Park Five, che condizionò di molto l’opinione pubblica.

Mentre il Presidente degli Stati Uniti continua ad erigere barriere, nei paesi anglosassoni e, più in generale, nel mondo occidentale, il movimento Black Lives Matter ha innescato un processo di rimozione e abbattimento dei monumenti celebrativi del passato coloniale, da cui parte dello stesso movimento si è dissociata.

In Inghilterra, a Bristol, la rimozione della statua dello schiavista Edward Colston ha segnato il punto di partenza della “resa dei conti” con i monumenti celebrativi del passato colonialista europeo. A Londra, dove la statua di Winston Churchill è stata sfregiata con la scritta “was a racist”, ricordando, per dirne una, la Carestia del Bengala del 1943, le autorità hanno preferito rimuovere la statua di Robert Milligan prima che la furia dei manifestanti si scagliasse sul monumento commemorativo. All’Oriel College dell’università di Oxford in molti chiedono la rimozione della statua di Cecil Rhodes, dibattito che era già stato affrontato in passato e a cui il college aveva messo fine definendo il monumento un promemoria della complessità della storia e dell’eredità del colonialismo.

L’Inghilterra non è, tuttavia, un caso isolato e mentre scrivo altri fatti accadono: ad Anversa, in Belgio, è stata rimossa la statua del re Leopoldo II, responsabile di un genocidio che ha causato tra i 3 e i 10 milioni di vittime; tre statue di Cristoforo Colombo cadono negli Stati Uniti, navigatore ed esploratore per la comunità italo-americana, sterminatore per altri, le proteste contro il genovese risalgono già al XIX secolo.

In Italia emblematico è, invece, il caso del monumento a Indro Montanelli all’interno dei giardini pubblici di Via Palestro, già imbrattato di vernice lavabile di colore rosa nel marzo del 2019, gesto che fu rivendicato dal collettivo femminista Non Una di Meno non come un atto vandalico bensì come “una doverosa azione di riscatto”. Sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, la statua torna, dunque, a far discutere (anche se, al dire il vero, il dibattito non si è mai assopito sin dalla sua erezione nel 2006). L’episodio della sposa-bambina eritrea, di cui Montanelli parla apertamente in una celebre intervista ne L’Ora della Verità del ’69, è al centro delle polemiche che ruotano intorno alla statua, sulla quale negli ultimi giorni è stata versata della vernice rossa e su cui sono state scritte le parole “stupratore” e “razzista”.

Milano reagisce impacchettando alla Christo la statua e transennandola, al fine di evitare altri atti definiti vandalici, e con un video di Beppe Sala che ribadisce la sua posizione favorevole alla non rimozione, in ricordo di un uomo di cultura che ha avuto un ruolo importante nell’ambito della libertà di stampa, dal punto di vista nazionale e internazionale.

Risulta evidente che il discorso sui monumenti cela, in realtà, una rabbia per troppo tempo trattata con indifferenza, che nasce dal concatenarsi di fattori storici e sociali molto complessi; pertanto quello dei monumenti non è che uno dei tanti livelli sui quali si sta affrontando la discussione.

Un elemento molto importante a tal proposito riguarda anche la trascuratezza nei confronti di una riflessione pubblica sul ruolo dei monumenti nella società contemporanea, così tale mancanza si tramuta negli esiti più violenti della protesta, che non tiene conto del mutamento del significato di un’opera nel corso dei secoli e dell’importanza della memoria.

Abbattere oggi alcuni monumenti sarebbe un atto sbagliato dal punto di vista storico e artistico, oltre che del tutto anacronistico, piuttosto quel che si dovrebbe fare, afferma Alessandro Portelli de Il Manifesto, è <<rendere evidente il trascorso (…) siamo in tempo per una seria presa di coscienza del problema e per insistere sull’educazione e sulla didattica, riflettendo su commenti mirati, su percorsi espositivi, su centri di documentazione e di ricerca, su programmi scolastici, su mostre e musei che possano offrirci un aiuto concreto per affrontare con maggior serenità una riflessione approfondita sul nostro passato recente>>. In sostanza, dovremmo affrontare una riflessione critica del nostro passato e preoccuparci di integrare ai monumenti quello che manca, piuttosto cancellarli.

Facendo riferimento al caso di Indro Montanelli, Igiaba Scego (scrittrice italiana di origine somala) ha aperto una riflessione sulla contestualizzazione e arricchimento del racconto sul celebre giornalista, al fine di tenere in considerazione tanto l’uomo di scienza quanto l’uomo limitato ai suoi istinti. Allora perché non affiancare alla statua di Montanelli un’opera che ricordi le violenze che subiscono le bambine vittime di abusi sessuali? Detto, fatto!

Il 15 giugno, in via Torino a Milano, è comparso il murales dello street-artist Ozmo, il quale ha dedicato a “Fatima-Desta”, la bambina eritrea di 12 anni che Indro Montanelli ammise di aver “comprato” e sposato quando era soldato durante la campagna d’Abissinia. L’artista ha affermato in un’intervista ad ArtMagazine << con quest’opera voglio restituire, almeno in parte, dignità ai deboli, emarginati, violentati e derubati>>.

 

Il punto che sin qui si si è cercato di affrontare si basa sul livello del “fare Storia”: il dibattito sulle tracce del passato non può essere meramente ridotto all’abbattimento o meno di statue e monumenti. Quello che possiamo fare è cercare di capire le ragioni dei gesti, ma quello che non possiamo fare è giustificare gli abbattimenti.

Chiudiamo l’articolo con una citazione dello storico Alessandro Barbero:

<<Io penso che la revisione delle glorie e dei grandi personaggi della nostra civiltà occidentale abbia delle ragioni e fino a un certo punto ci permetta una visione più ampia della storia (…) Quanto poi alla specifica forma assunta dal revisionismo politicamente corretto in questi ultimi tempi, con la caccia alle statue, la trovo sbagliata da cima a fondo e molto pericolosa (…). Mettersi a fare l’inventario delle statue e abbattere quelle che sono dedicate a personaggi storici non perfetti, e non in linea con i nostri valori odierni, è un’idiozia e una forma di vergognoso e arrogante imperialismo culturale verso gli ambienti di quel luogo diverso che è il passato. È, inoltre, evidente che una volta cominciato è impossibile fermarsi. Rimosse le statue del generale Lee, bisognerà rimuovere anche quelle del presidente Lincoln, il liberatore degli schiavi, il quale allo scoppio della Guerra Civile dichiarò che per lui la questione della schiavitù era del tutto secondaria; che se per salvare l’unione doveva abolire la schiavitù, l’avrebbe fatto; e se invece per salvare l’unione doveva mantenerla, l’avrebbe mantenuta>>.

Concludo dicendo che la Storia insegna e che il passato, a differenza del presente, non può essere cambiato, e che lo storico non si sottrae dal criterio di rivalutazione di quest’ultima. Rifacendomi alla regista Ava DuVernay vi lascio con una domanda: adesso che conosci, adesso che sai, cosa fai?

 

Approfondimento di Annarita Gentile, Spazio13.

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